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Francesco Mattioli: senza un cambio di mentalità ogni progetto fallirà

Francesco Mattioli: senza un cambio di mentalità ogni progetto fallirà

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Riceviamo e pubblichiamo il contributo  presentato dal sociologo Francesco Mattioli alla discussione sul Master Plan sul centro storico di Viterbo  – \r\n\r\nI sociologi hanno manifestato sempre un’attenzione particolare nei confronti della Città. Del resto, Lewis Mumford  scriveva che la città è il contesto in cui si sviluppa e si evolve la vita associativa e dove “si vede” l’organizzazione sociale, perché è con la città che nasce la civiltà ed è nella città che si elabora il futuro dell’umanità. Oggi la città è sotto l’occhio attento dei sociologo perché è il laboratorio in cui sta crescendo la società complessa, incerta, multietnica e multiculturale del XXI secolo; una città che però rischia di  crescere in modo modulare, ripetitivo, anonimo, che rischia cioè di perdere la propria identificabilità e, peggio ancora, la sua identità. \r\n\r\nUna città senza identità è un alveare, un formicaio in cui l’individuo rischia lo sradicamento culturale se non riesce a riconoscere né la sua storia, né le sue appartenenze, né il suo habitat sociale, perdendo così la propria identità ma anche il senso della responsabilità civica.\r\n\r\nFerdinand Toennies osservava che senza un’idea di patria l’uomo è perduto, ma che senza una tradizione storica non c’è idea di patria, ovvero in termini moderni, non vi è possibilità di una identificazione culturale.   Fortunata quindi la città che gode di un nucleo urbano di valore storico, in grado di farsi simbolo stesso della città.\r\n\r\nQuesta fortuna tuttavia oggi non va soltanto curata nei suoi aspetti artistici e culturali, non serve soltanto a preservare l’identità storica della città; essa diviene anche una posta in gioco per garantire alla città  ricchezza, sviluppo, crescita economica.  Il tavolo da gioco ormai è costituito dall’economia globale e i giocatori al tavolo sono numerosissimi, agguerriti, pronti a trarre massimo profitto dai propri gettoni. Non c’è chance per chi cammina in una gara in cui tutti corrono, nessuna speranza di affermarsi per chi non sa adattarsi al percorso, per chi non sa cogliere la giusta direzione verso il traguardo.\r\n\r\nTuttavia la cura della Città non è solo finalizzata al mercato; essa è direttamente collegata alla qualità della vita dei suoi abitanti. C’è insomma un azione che non è soltanto outdoor, quindi di valorizzazione della Città  a beneficio dello sviluppo economico, ma anche un’azione indoor, anzi soprattutto indoor, che garantisce al cittadino, con la capacità di riconoscere e di  sentire il suo legame con il territorio, un benessere psicologico e materiale che ne assicuri quella che Amartya Sen ha definito la “felicità di vivere”; aggiungo: la felicità di vivere in “quella” città.\r\n\r\nMa veniamo a Viterbo,  al suo centro storico, che senz’altro la identifica e la caratterizza.   Come sociologo, che osserva l’evoluzione storica e sociale di una Città, e come viterbese che ha vissuto e vive i problemi di questa Città, che ne ha vissuto le crescita e il cambiamento in questi ultimi decenni, non posso non sottolineare alcune criticità, che vanno affrontate al momento di decidere in quale direzione orientare un piano degli interventi.\r\n\r\nLa prima criticità di cui occorre tener conto è che il corso della storia ha condotto ad una differenziazione della Città non solo tra  centro e  periferie, ma anche all’interno del centro storico, determinando una pluralità di “identità” della Città, e  quindi di “usi”  della Città storica (c’è quella etrusca, quella medievale, quella rinascimentale, quella barocca, quella religiosa, quella folclorica, quella paesaggistica, quella enogastronomica, quella commerciale, quella artigianale, quella culturale, e via di seguito).\r\n\r\nViterbo (come altre città, beninteso) in realtà non ha “un” centro storico. Ne ha tanti, accomunati dalla cerchia delle mura che li ricomprende, ma di diversa funzione urbana, di diverso spessore storico e artistico, di diversa fruizione sociale e, soprattutto con differenti prospettive di sviluppo.  Non sto qui a farvi un elenco di queste diversità, ma è palese che tra San Pellegrino, Pianoscarano, San Faustino e il  centro direzionale che da Porta Romana, attraverso Piazza del Plebiscito, Corso Italia e Piazza Verdi risale a Porta Fiorentina, vi siano delle differenze urbanistiche e sociali che meritano una strategia tanto coerente sul piano della filosofia progettuale, quanto flessibile e adattiva sul piano degli specifici interventi operativi.\r\n\r\nMa c’è ancora un centro storico di cui parlare, e su questo intendo spendere qualche parola in più. Si tratta delle mura. Qualche giorno fa a Bergamo  hanno organizzato una grande manifestazione popolare nella prospettiva di una proposta di riconoscimento dell’Unesco per le mura venete della città vecchia.  Bellissime le mura bergamasche; ma più vecchie di quasi trecento anni  delle mura viterbesi, e più facili, nella loro classica massiccia forma tardorinascimentale, ad essere protette (le mura di Viterbo sono diventate nel tempo anche le mura di molte abitazioni). Che farne di questo nostro patrimonio  così prezioso, per di più quasi intatto, anche se ampiamente offeso, in qualche caso occultato e persino orrendamente restaurato in alcune sue parti?  Credo che il collega Bentivoglio, che ha studiato  a lungo le mura viterbesi, saprebbe dare qualche suggerimento prezioso.\r\n\r\nLa seconda criticità che riguarda il centro storico viterbese è costituita dalle dimensioni del suo spopolamento e dalla conseguente forte contrazione delle attività socioeconomiche al suo interno, che lasciano spazio alla marginalizzazione sociale e al degrado.\r\n\r\nDal secondo dopoguerra Viterbo si è progressivamente estesa oltre le proprie mura; a parte le ville suburbane, la creazione extra moenia di quartieri popolari nuovi (e innovativi nei servizi offerti, rispetto alle vecchie case del centro), come il Pilastro, l’Ellera, i Cappuccini, creò uno strappo tra la popolazione e il centro storico, uno strappo interpretato come “innovazione”, come “risalita” nella stratificazione sociale e come avvicinamento ai nuovi standard postbellici di benessere.  D’altronde, nell’epoca del boom economico – e edilizio – degli anni ’50 e ’60, si svuotano i centri storici di pressoché tutte le città italiane, e Viterbo aveva mille motivi per non fare eccezione. Semmai viene da chiedersi perché il centro storico viterbese perda attrattività in modo così drastico sul piano demografico, tanto da pregiudicare anche lo sviluppo delle sue attività commerciali.\r\n\r\nTra i tanti motivi, occorre considerare che l’unica industria presente a Viterbo è sempre stata sostanzialmente quella edilizia, che si è quindi  impegnata negli ultimi cinquant’anni nella realizzazione di nuove lottizzazioni e di nuovi quartieri residenziali, e quindi anche nel convincere la popolazione – del resto con argomenti inappuntabili (risparmio energetico, servizi migliori, comodità, parcheggi) –  a trasferirsi in periferia.  Alla recessione economica di questi ultimi anni viene invece imputata la contrazione delle attività commerciali del centro. Ma non è esattamente così. Il fenomeno appartiene ad un  processo di più vaste dimensioni storiche, che  vede la progressiva dislocazione delle attività commerciali in appositi centri extraurbani, ricchi di servizi complementari. La crisi c’entra poco, in questo; sembra piuttosto una sorta di nemesi darwiniana che attiene alla modifica dei meccanismi di consumo. I negozi hanno progressivamente messo all’angolo i mercati di piazza, oggi i centri commerciali mettono in crisi i negozi, e non  solo quelli del centro, e domani l’e -commerce metterà in crisi i centri commerciali…\r\n\r\nMa per spiegare l’entità dello spopolamento del centro storico viterbese occorre considerare anche un altro fattore.  Se si analizzano le sequenze storiche dei dati sociodemografici, si notano due impennate del processo di spopolamento: la più recente è quella degli anni ‘90 in cui la popolazione del centro storico crolla da 19.000 a 9.000 abitanti, per scendere nei primi anni duemila a poco più di 6000 residenti; ma ce ne è una che riguarda grosso modo il decennio 1945-1955, in cui si stima che almeno un quarto degli abitanti del centro storico siano migrati al di fuori della cerchia muraria. Il dato degli anni novanta è molto significativo, ed è la conseguenza di un  cambio di rotta delle abitudini di consumo e degli spostamenti sul territorio che caratterizzano la modernità postindustriale.  Il dato relativo al periodo postbellico trova invece una spiegazione nei bombardamenti subiti da Viterbo nel 1943 e nel 1944.  Il bombardamento del centro storico, con la distruzione di quasi un migliaio di edifici lungo il fianco settentrionale e orientale della Città, quello prossimo all’asse ferroviario e alla Cassia,  finì per espellere molti cittadini, che non rientrarono più. Non mi riferisco tanto agli sfollati di origini più povere che andarono ad abitare le cosiddette “case minime”, ma ai tanti altri cittadini che colsero l’occasione per allontanarsi da abitazioni ormai inadeguate ai nuovi stili di vita del dopoguerra e del boom economico, preferendo i nuovi quartieri extraurbani dell’Ellera e dei Cappuccini.\r\n\r\nA conferma di tutto ciò, va considerato il rapido invecchiamento della popolazione residente nel centro storico; perché sono soprattutto le nuove famiglie, portatrici di nuovi bisogni e di nuovi stili di vita, compreso il possesso di almeno un’automobile, ad abbandonare il centro storico.\r\n\r\nSe osserviamo la Viterbo storica dall’alto si capisce il motivo della fuga in massa verso i nuovi quartieri residenziali:  persino le “grandi arterie” del centro storico viterbese – Via Garibaldi, Via Cavour, Corso Italia, Via Matteotti, via Cardinal La Fontaine, Via Mazzini–  sono in realtà dei budelli tortuosi inadeguati ad una circolazione moderna, in parte persino inaccessibili ai mezzi pubblici. .. Del resto Viterbo non è una di quelle città “capitali” che ha subito gli sventramenti urbanistici rinascimentali o i processi di hausmannizzazione dell’ottocento, mentre il razionalismo fascista si è limitato a pochi interventi mirati.  Se tutto ciò oggi è una fortuna o un handicap, è difficile a dirsi e non ho qui tempo per discuterne.  In ogni caso, per la famiglia del XXI secolo – tutta casa, garage, posto macchina, ascensore, riscaldamento a basso consumo energetico e ariosi affacci –  un’ abitazione nel centro storico con difficoltà di parcheggio, scale ripide, finestre piccole,  coibentazione problematica, inquinamento acustico e atmosferico, non può essere per niente allettante. Certo, ci sono le derive contrarie. Collocazioni privilegiate e spazi abitativi particolarmente generosi; abitudini e stili di vita non consumistici; scelte affettive; gusto del pittoresco da weekend; e soprattutto, per alcuni, risorse economiche limitate:  sono questi i motivi che spingono gli attuali 8000 viterbesi, poco più del dieci per cento della popolazione totale, ad abitare dentro le mura. Ma va detto che se c’è stata una rimonta in questi ultimi anni, è quasi tutta dovuta alle famiglie immigrate, che si sono meglio adattate a risiedere nel centro storico.   Ne emerge un quadro abbastanza complicato; ad esempio, c’è il rischio di trovarsi di fronte ad una popolazione almeno in parte polarizzata su due estremi: da un lato le famiglie abbienti, quelle in grado di ristrutturare al meglio le abitazioni storiche o i palazzetti gentilizi e di garantirsi un soddisfacente livello di qualità della vita anche in centro; dall’altro famiglie di limitate risorse economiche, che abitano le costruzioni più popolari, con servizi modesti e di minor valore immobiliare. Ancora, si può verificare il paradosso che il bisogno di circolazione automobilistica nel centro storico sia più sentito da chi proviene dall’esterno, piuttosto che dai residenti.\r\n\r\nLa tendenza generale comunque  è quella di una costante perdita di attrattività socioeconomica del centro: non è un caso che progressivamente ospedale, scuole, servizi amministrativi, banche, centri commerciali, palestre, locali pubblici si siano decentrati, siano usciti dal centro storico generando flussi extraurbani favorevoli alla circolazione automobilistica.  Peraltro ricordo che, quando si andava profilando l’istituzione dell’Università a Viterbo, uno dei mantra ricorrenti era quello che parlava di una università “diffusa” tra le vie del centro storico, per riqualificarne la fruizione sociale e culturale. Una gentrificazione che, in  questa prospettiva, non è avvenuta: l’università viterbese è sì dislocata in più sedi, ma è sostanzialmente extra moenia anche quando occupa edifici storici, come Santa Maria in Gradi o San Carlo.\r\n\r\nCosì, alla fine nell’immaginario della popolazione viterbese il centro è diventato un “luogo” abbastanza limitato sia nello spazio che nel tempo di fruizione: è il luogo in cui converge la popolazione nel corso dei suoi riti collettivi: lo “struscio” pomeridiano, le manifestazioni tradizionali (la Macchina di Santa Rosa), le celebrazioni, gli eventi e gli spettacoli popolari, i mercatini; ed è il luogo in cui si individuano i contenitori privilegiati della comunicazione culturale e gli attrattori turistici: musei, teatri, sale mostre, locali tipici.\r\n\r\nPer affrontare con possibilità di successo tutte queste criticità, mentre Viterbo tenta di accreditarsi sul mercato come città d’arte e cultura, sono necessari forti cambiamenti. Voglio ricordare che Viterbo solo negli ultimi trent’anni ha espresso progressivamente una vocazione sempre più esplicitamente turistica – aiutata in questo dall’offerta termale che affianca quella storico-artistica; fino agli anni ‘80 nelle enciclopedie Viterbo veniva descritta ancora come “ridente centro agricolo dell’Alto Lazio”, mentre città vicine come  Siena e Orvieto erano già definite come centri di interesse artistico, culturale e storico.\r\n\r\nMa attenzione: una vocazione turistica esige una “svolta culturale”.\r\n\r\nEssa infatti impegna pubblico e  privato in una specifica reinterpretazione della governance urbana; e impegna il singolo cittadino in nuove competenze imprenditoriali, in nuovi comportamenti prosociali che si ispirano ad una cultura dell’accoglienza ed esigono una forte apertura mentale.   Perché  è il cittadino in prima persona che si deve fare partecipe e protagonista del cambiamento, non basta aspettare che siano le sole istituzioni a  farlo, non è questo il senso di una democrazia partecipata, di una comunità che deve ispirare i suoi amministratori, non deve semplicemente seguirli o giudicarli senza compromettersi.\r\n\r\nAllora, prioritariamente, due sono le domande che sorgono, inevitabili e impellenti.\r\n\r\nLa prima. I cittadini viterbesi sono in grado di contribuire alla valorizzazione della Città e ad incentivarne la vocazione turistica? Sono in grado di realizzare la “svolta culturale” necessaria?\r\n\r\nLa risposta, a mio avviso, è tuttora negativa, a dispetto  di tutti coloro che  si dannano l’anima per crescere.\r\n\r\nBasta gurdare come appaiono quasi quotidianamente San Pellegrino e luoghi adiacenti. E’ questo il “recupero” del centro storico?\r\n\r\nPalazzetto della Pace, angolo Piazza delle Erbe-Corso Italia. Un  gioiello datato 1503, con un particolare valore nella storia cittadina.  Cinquant’anni fa la facciata sulla piazza era ancora ornata da graffiti a losanghe su sfumature grigie; che ne è stato? Per inciso, a Via Annio sulla facciata cinquecentesca di Palazzo Nini resistono a mala pena delle splendide figure graffite: che ne sarà di loro?\r\n\r\nMa c’è di più, e peggio. Via San Leonardo: affreschi quattrocenteschi sulla facciata di un palazzetto, distrutti perché – testimonianza di un ispettore della sovrintendenza – i proprietari volevano approfittare degli incentivi comunali per il restauro – meglio: per l’intonacatura – delle facciate degli edifici del centro storico.\r\n\r\nE’ questo il restauro del centro storico?\r\n\r\nE usciamo anche fuori dalle mura. Castel Firenze in via della Grotticella,  distrutto. Perché, pur riecheggiando stilemi di un certo liberty neoclassico e rappresentando un unicum tra le architetture del novecento viterbese, e stato considerato solo “vecchio”. Non una tappa dell’urbanistica viterbese, solo un vecchiume.  Informo i colleghi romani che è pressoché coevo al quartiere Coppedé, tanto per intenderci.\r\n\r\nE’ questa la conservazione della memoria architettonica  della città?\r\n\r\nSe i viterbesi non rispettano la loro città, se fanno ben poco per valorizzarla e abbellirla, ogni progetto di riqualificazione urbana è destinato a fallire. E poiché, come il coraggio per Don Abbondio, la coscienza civica non tutti se la possono dare, l’unica soluzione efficace resta la cosiddetta prevenzione secondaria: controlli, telecamere, penalizzazioni esemplari nei confronti di chi sporca e danneggia. Anche questa raccomandazione dovrebbe far parte integrante del masterplan…\r\n\r\nSeconda domanda: occorre una strategia unitaria per il centro storico? Certamente sì, nella filosofia generale, certamente no nelle specifiche applicazioni.\r\n\r\nCome si è detto, Viterbo presenta diversi centri storici, con differenti esigenze di  interventi e di programmazione.  Alcune aree del centro storico, a mio avviso, dovrebbero diventare oil free, accessibili solo ai mezzi ciclabili ed elettrici, soprattutto in versione sharing, comunque serviti da fonti energetiche non inquinanti. Si tratterebbe del centro storico monumentale, delle piazze storiche e delle vie che le collegano, che diverrebbero un’attrazione turistica (e un bel segno di civiltà) non solo per i loro tesori architettonici, ma anche per la gestione naturalistica ed ecosostenibile dell’ambiente urbano.\r\n\r\nRischio di musealizzazione? Minimo, in molte città italiane e estere la gestione oil free di alcune aree, anche molto estese, dei centri storici ha creato forme positive di gentrificazione, compresa la riconquista dello spazio da parte del cittadino pedone, la creazione di nuovi attrattori commerciali e il miglioramento della qualità dell’aria, che va a beneficio non solo degli abitanti ma anche dei monumenti. Stesso trattamento dovrebbe essere riservato a specifici percorsi naturalistici di accesso alle aree termali e alle aree archeologiche.  Viterbo sarebbe una delle città più avanzate a livello globale se decidesse di realizzare ampie aree oil free nelle zone più sensibili dal punto di vista dell’offerta turistico-culturale.\r\n\r\nGli altri quartieri del centro storico potrebbero prevedere il divieto d’accesso ai veicoli più inquinanti e severi regimi di ztl, funzionali alle specifiche esigenze della circolazione locale.\r\n\r\nMa questi meccanismi possono essere effettivamente realizzabili solo se il centro storico viene ben servito, ripeto ben servito, da mezzi pubblici ecologici ad alta frequenza.\r\n\r\nSi tratta di soluzioni che richiedono non tanto una disponibilità finanziaria – i progetti ecosostenibili che riducono l’inquinamento e il consumo energetico godono di molte facilitazioni – quanto soprattutto un cambio di mentalità: finché i viterbesi penseranno che chi prende un mezzo pubblico è uno sfigato o che Piazza del Comune sia la passerella privilegiata per esibire il suv appena acquistato, il centro storico non potrà che essere preso d’assalto dal traffico privato.\r\n\r\nMa c’è un altro punto su cui occorre riflettere. Un centro storico ha senso e prospettiva solo se si collega con le periferie. Facile coniugare Villa Lante, La Basilica della Quercia, le Terme e persino San Martino al Cimino con le attrattive turistiche del centro; ma con le altre periferie residenziali? Penso a Santa Barbara, a Santa Lucia, allo stesso Pilastro, ai Cappuccini o al Barco, e penso anche alle periferie più lontane, come Grotte Santo Stefano.     Qualcuno si chiederà: ma che c’entrano le periferie? Il fatto è che la Città è un organismo unitario, un organismo sistemico, seppur composto da una molteplicità di elementi distinti.\r\n\r\nLe  varie componenti della città vanno quindi integrate, mai messe l’una contro l’altra, mai l’una privilegiata a scapito dell’altra, con il rischio di creare conflitti, fratture, incomprensioni, populismi contingenti, cittadini di serie A, di serie B e magari anche di serie C, allorché si sottovalutano i problemi più elementari dell’inclusione sociale e dell’accessibilità urbana.\r\n\r\nE’ un’intera Città che va ripensata nelle sue diverse vocazioni, prospettive, modalità di fruizione, servizi tecnologici,  accoglienza, capacità di rappresentare l’identità cittadina, di proporsi in un mondo che si va trasformando, che mette sempre più al centro, accanto al consumo di cultura e alle forme più evolute della civile convivenza, la crescita sostenibile – che per inciso è ben altro della decrescita felice, che sa tanto di utopia luddista.\r\n\r\nFaccio due proposte banali, per le periferie. Dato per scontato che le periferie hanno bisogno di sevizi e sovrastrutture adeguate, proviamo ad andare un po’ oltre questo ritornello, che rischia di diventare la fiera dell’ovvio.\r\n\r\nIn alcune città le periferie stanno diventando centri di particolare interesse turistico e culturale grazie ad un uso diffuso dei murales d’autore, a coprire le pareti anonime di una cementificazione senz’anima.\r\n\r\nAncora, in alcune periferie i giardini diventano delle attrazioni turistiche, oltre che risposta alle esigenze di verde pubblico degli abitanti. Persino le rotatorie possono diventare attrazioni turistiche, magari affidate a privati, che in cambio di un modesto cartello pubblicitario si impegnano ad abbellirle e a farne manutenzione (con l’occasione stenderei un velo pietoso su certe polemiche estive al riguardo).\r\n\r\nSolo così la Città diventa tessuto urbano, non un mero assemblaggio di quartieri, ma un’unica identità sociale, spaziale, architettonica e culturale capace di giocare le sue carte sul mercato globale.\r\n\r\nIl destino di Viterbo va visto nella prospettiva di quelli che saranno i trends dei prossimi trent’anni: i sociologi lo stanno scrivendo da almeno un ventennio:  città smart, a misura d’uomo, servite da tecnologie d’avanguardia ma ecosostenibili, città che dovranno  rispettare la dignità e la qualità della vita dei loro abitanti,  che dovranno rispondere sempre più spesso ad una domanda di tempo libero qualificato, generatore di nuove professionalità e di nuove prospettive occupazionali.  Città impegnate in un confronto globale in cui saranno la creatività e il coraggio dell’innovazione a fare la differenza.\r\n\r\nUn masterplan del centro storico, allora, può diventare all’un tempo una nuovo punto di osservazione dei fenomeni urbani e uno strumento in grado di calibrare strategie differenziate ma coerenti, e soprattutto condivise, di intervento sulla Città.\r\n\r\nBen venga il masterplan, come frutto di uno studio scientifico che suggerisca obiettivi e  strategie agli amministratori. Ma soprattutto ben venga se si propone come un nuovo punto di osservazione e di riconsiderazione della realtà, come quello degli studenti in piedi sui banchi, nel bel film di Peter Weir,  L’attimo fuggente  Non dobbiamo dare soltanto risposte; di fronte ai grandi, repentini cambiamenti che si succedono nella nostra società, non possiamo essere soltanto ragionieri di una amministrazione ordinaria, per quanto efficiente; dobbiamo saper guardare oltre, dobbiamo saper anticipare il futuro, persino contribuire a dettarlo.  Le nostre scelte non devono limitarsi a tentare di sciogliere burocraticamente il nodo di Gordio, le nostre scelte possono fare la storia solo se si prendono decisioni non convenzionali, solo se il nodo di Gordio si affronta e si spezza con un colpo di spada.\r\n\r\nMi aspetto che il Comune di Viterbo faccia tesoro di certe indicazioni, faccia delle scelte programmatiche coraggiose e si impegni ad implementarle, soprattutto se potrà avvalersi, assieme al sostegno delle scienze urbanistiche e sociali, della partecipazione attiva e costruttiva- ripeto: costruttiva, un aggettivo che a Viterbo ha scarso successo –  della popolazione e delle forze sociali che essa esprime.\r\n\r\n \r\n\r\nFrancesco Mattioli

Redazione Viterbo Direttore responsabile Quinta Epoca. Economista, giornalista e scrittrice.