Home Pagine in Fiore Anche Viterbo ebbe il suo Platone: Egidio da Viterbo

Anche Viterbo ebbe il suo Platone: Egidio da Viterbo

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Il prossimo anno, nel 2017, ricorrerà il cinquecentesimo anniversario della Riforma Protestante, iniziata con l’affissione delle famose Tesi di Martin Lutero, nelle quali si criticavano aspramente alcuni articoli di fede, ma soprattutto i costumi coevi della Curia romana.\r\n\r\nL’azione rivoluzionaria del frate agostiniano portò alla scissione, a tutt’oggi irrisolta, della Chiesa di Roma dalle neonate comunità cristiane protestanti, le quali, oltre a divenire la causa di un insieme di eventi storici critici all’interno del panorama religioso e politico europeo, si sarebbero rivelate estremamente prolifiche, dando origine a numerosi rami collaterali, non sempre fedeli all’originaria linea luterana.\r\n\r\nChecché se ne pensi, la Riforma fu un evento fondamentale all’interno del panorama culturale e religioso dell’epoca, tanto che stimolò, in seno alla stessa Chiesa Cattolica, un diffuso movimento di riflessione e di dialogo teologico, che avrebbe poi portato, nel 1545, alla convocazione del ben noto Concilio di Trento, che nel corso di numerosissime sessioni si sarebbe pronunciato su quella che è conosciuta come Controriforma: un insieme di norme teologiche e dogmi di fede che trasformarono profondamente la Chiesa, rendendola qualcosa che, per certi versi, fu poi radicalmente diverso da ciò che era sempre stata.\r\n\r\nFin qui la storia che tutti conoscono.\r\n\r\nQuello, invece, che molti non sanno è che già ai primi del Cinquecento esisteva, sparsa per varie regioni d’Italia, una sorta di ala riformista interna alla Chiesa Cattolica, che poteva contare su personaggi del calibro e della levatura morale e intellettuale quali quelli del cardinale Reginald Pole, la nobildonna Vittoria Colonna, appartenente all’antichissima prosapia dei romanissimi baroni Colonna, il raffinato letterato e umanista Marcantonio Flaminio, che sarà poi il “segretario” del Concilio di Trento istruito da Papa Paolo III, al secolo il cittadino viterbese ad honorem Alessandro Farnese, nonché Egidio Antonini.\r\n\r\nSenza nulla togliere, naturalmente, agli altri personaggi appena citati, e tutti riuniti in quel gruppo di “illuminati” conosciuto con il nome di Ecclesia Viterbiensis  che si riuniva regolarmente presso la casa viterbese del cardinal Pole, situata nel Palazzo che si estende tuttora accanto alla Rocca Albornoz o Loggia Farnesiana, è proprio sull’ultimo che vorrei per un momento concentrare la mia attenzione.\r\n\r\nMolti sapranno infatti che il Rinascimento, quell’epoca storico-artistica che vide il suo apice tra la fine del Quattrocento e il primo quarto del Cinquecento, fu un momento di intensi fermenti artistici e di grande rinascita culturale: rinascita, di cui fu maggiore matrice filosofica la riscoperta e il grandissimo successo delle dottrine platoniche e neoplatoniche, diffuse in Italia in particolar modo dal profondissimo Marsilio Ficino, attraverso le sue traduzioni latine e i suoi lavori originali.\r\n\r\nSi crede generalmente, ed è sicuramente vero, che Firenze fu dunque la culla del neoplatonismo rinascimentale e del ritrovato rapporto di complicità con gli illustri antichi del nostro continente e non solo.\r\n\r\nSe tutto ciò è largamente conosciuto, quello che, invece, non tutti sanno, è che anche Viterbo ebbe il suo Platone, punto di riferimento per molti e importanti uomini di cultura del Rinascimento, così come lo fu Marsilio Ficino: si trattava, appunto, di Egidio Antonini, meglio conosciuto come Egidio da Viterbo.\r\n\r\nQuesto poliedrico personaggio fu teologo, predicatore, filosofo, poeta, oratore, esoterista e cabalista, nonché frate dell’Ordine Agostiniano.\r\n\r\nDi tale antica e rispettata Congregazione Egidio fu anche Priore Generale, ruolo che gli fu riconfermato per ben tre mandati consecutivi: fu proprio durante il corso del suo priorato che Martin Lutero, in effetti suo confratello, affisse le famose Tesi, che dettero inizio alla Riforma Protestante e allo scisma con la Chiesa di Roma.\r\n\r\nFedelissimo alla causa cattolica, fu tuttavia uno dei punti di riferimento dell’ala riformista e conciliarista in seno alla Curia e divenne uomo di fiducia e diplomatico di papi della rilevanza storica di Giulio II, al secolo Giuliano Della Rovere, e Leone X, conosciuto, prima dell’ascesa al soglio pontificio, con il nome di Giovanni De’ Medici.\r\n\r\nHo però detto poco sopra che Egidio, tra le sue altre e molte qualità, ebbe quella di poter essere considerato il Platone viterbese: e ciò a ragion veduta.\r\n\r\nNel corso dei suoi precoci studi filosofici, che non disgiunse mai da quelli teologici e dai suoi impegni pastorali, Egidio fece ben presto la conoscenza di Platone, soprattutto nella veste delle traduzioni latine del noto filosofo greco: l’incontro col discepolo prediletto di Socrate lo segnò profondamente, tanto da trasformarlo in uno dei suoi più arditi difensori, contrapponendolo (spesso senza mezzi termini) a quella che, all’epoca, poteva essere considerata la maggiore autorità occidentale in campo filosofico e in parte teologico, ovverosia Aristotele e, soprattutto, l’aristotelismo.\r\n\r\nEgidio da Viterbo, dunque, divenne presto uno dei più importanti punti di riferimento in Italia per quanto riguardava il platonismo, tanto da arrivare a fornire un commento estremamente ricco e articolato su base platonica alle prime diciotto delle Sentenze di Pietro Lombardo, le quali erano una sorta di libro di testo ufficiale per lo studio della teologia cattolica.\r\n\r\nL’intento (neppure troppo velato) di Egidio, era quello di dimostrare appieno come le verità di fede e teologiche della tradizione religiosa cristiana, potessero serenamente sposarsi con l’antica sapienza platonica e neoplatonica e, addirittura, essere fondate, oltre che sulla Rivelazione e le Sacre Scritture, sull’autorità di Platone stesso, facendo così del platonismo e del neoplatonismo i maggiori alleati della teologia cristiana.\r\n\r\nTale opera di mole e ambizione immense, ancora mai tradotta in italiano, è giunta fino a noi in forma manoscritta sotto il nome di Sententiarum liber usque ad XVIII distinctionem ad mentem Platonis (e ne è stata recentemente fornita un’importante edizione critica da Daniel Nodes), il che può essere liberamente tradotto come Libro delle prime diciotto sentenze sulla base della filosofia platonica. \r\n\r\nSi tratta di un lavoro immenso dai contenuti estremamente complessi e dettagliati, in cui Egidio fa sfoggio di una conoscenza e di una padronanza delle fonti platoniche, che è forse difficile trovare in autori coevi: il che ci permette di comprendere quanto la sapienza del filosofo greco fosse profondamente ingranata nell’animo del viterbese, che la contrappone non raramente, nel corso di tutta l’opera, agli assunti aristotelici, anche se molto spesso il nostro cardinale tenta di conciliare i due, piuttosto che porli “l’un contro l’altro armati”. Ecco che, dunque, il Dio della tradizione cristiana diviene il Bonum primum unum et incorporeum, ossia l’idea tutta platonica del Bene originario uno e incorporeo, dal quale tutta la Creazione discende direttamente, ordinata in diversi gradus, in differenti “scalini” e gradi di partecipazione a quell’Idea da cui tutto ha avuto inizio e di cui può ritrovarsi un’impronta fin nei reami più bassi del creato, quei reami che Egidio indica con il nome di silva, bosco.\r\n\r\nAllo stesso modo, la Trinità, delizia e croce di tutti i teologi medievali e non, diviene il corrispondente divino, tra le altre cose, delle facoltà che l’uomo ritrova in sé e che possono ricondurlo al perduto Bene originario, a cui naturalmente aspira: l’intelletto, la ragione, accompagnata dai sensi, e la volontà.\r\n\r\nMa Egidio non si limita a essere uno studioso e un discepolo di Platone: il cardinale viterbese arriva addirittura a completarlo e a rettificarlo in senso cristiano, affidando al concetto di amore, indicato con il nome di amor e altre volte con quello prettamente cristiano di caritas, un ruolo determinante nell’opera di abbandono della silva, il bosco della materia, per raggiungere il mondo degli intelligibili, quel famoso e spesso non meglio identificato iperuranio che tutti abbiamo sicuramente studiato al liceo e che Egidio da Viterbo ritrova nella pura essenza di Dio.\r\n\r\nGià in Platone, nel ben noto Simposio, l’amore ricopriva un ruolo fondamentale, potendo trascinare l’uomo, guidato dalla ragione, dalla conoscenza delle cose e delle creature materiali a quelle del mondo delle Idee.\r\n\r\nUn amore sacro e un amore profano, dunque, guidati dalla ragione e dalla contemplazione del bello e del buono, in un rapporto dove, comunque sia, è sempre quest’ultima ad avere il sopravvento sul primo, mantenendo fermamente la funzione di saggia guida.\r\n\r\nMa ecco che, invece, in Egidio i ruoli si invertono radicalmente e nel bellissimo proemio delle sue Sententiae, così come in uno stupendo trattatello sull’amore e la dignità dell’uomo in forma epistolare all’amico Antonio Zoccolo (Aegidius Antonio Zocholo et Romanis), l’amor, la caritas assumono finalmente una posizione di primo piano, configurandosi come una sorta di reagente chimico, senza il quale l’anima dell’uomo, checché dir ne voglia la ragione, non potrà mai elevarsi al cielo.\r\n\r\nInoltre, elemento, questo, di eccezionale profondità di pensiero, Egidio lega l’amore a filo doppio alla volontà dell’uomo, ponendo quindi nelle mani della nostra anima e del nostro prezioso arbitrio la possibilità finale di schiuderci al mondo della divinità, attraverso l’uso libero ed esclusivo della nostra voluntas.\r\n\r\nCerto, specifica Egidio, l’amore verso il sacro dovrà inizialmente essere acceso dalla visione, per quanto confusa, del bene, reperibile anche in questa nostra silva; ma questa non assicura che ci si innamori di esso, ponendo così la chiave di volta nelle mani dell’uomo e della sua volontà, ma creando anche un pericoloso precedente, che rischia di mettere in crisi la tradizionale idea platonica, secondo cui chi non ama il bene, può comportarsi così solo per due motivi: perché non lo conosce, o perché non lo conosce a fondo.\r\n\r\nSi tratta di un assunto che Egidio conosceva bene e che lo stesso riporterà anche nelle sue Sententiae, ma con il quale, in ultima analisi, non è chiaro se sia mai riuscito a venire veramente a patti.\r\n\r\nL’unica sua certezza rimaneva l’amore, che accende l’anima di una passione verso Dio che non è di questo mondo. Un amore che, solo, è in grado di farci divini.\r\n\r\nEx Deo nati sunt, amore non natura.[…] Quo absumpta mortali natura immortales ex Deo nasceremus.\r\n\r\nSono nati da Dio: per amore non per natura.[…] Così che, assunta [da Cristo] una natura mortale, potessimo noi rinascere da Dio immortali.\r\n\r\n(Lettera di Egidio ad Antonio Zoccolo e ai Romani, 257r, 258r)\r\n\r\n \r\n\r\nJacopo Rubini

Redazione Viterbo Direttore responsabile Quinta Epoca. Economista, giornalista e scrittrice.